Raggiungere la felicità
Per qualcuno la felicità è un punto di arrivo, un traguardo speciale cui puntare, un momento intenso e unico che si distingue dal resto della quotidianità.
Per altri è un percorso uniforme, fatto di passaggi necessari e definibili: intensificare i rapporti famigliari, costruire legami significativi, dare un senso al proprio impegno, fortificare la propria spiritualità.
Comunque la si intenda, la sensazione di benessere che desideriamo vivere e preservare dipende da fattori che provengono dal nostro mondo interiore, da quello esteriore e dalla loro combinazione.
La stimolazione dei sensi, la costruzione degli affetti e la memorizzazione degli eventi passati dipendono dal nostro assetto genetico, dalla nostra personalità e, infine, dal modo in cui decidiamo di vivere.
Abbiamo dunque un margine su cui lavorare per ottenere la felicità: possiamo decidere quale percorso imboccare.
Dobbiamo però prima di tutto sapere chi siamo, che cosa genera in noi piacere e quali sono gli obiettivi il cui raggiungimento ci farà sentire appagati.
Dobbiamo imparare a gestire le paure, capire come far produrre al nostro corpo i neurormoni della felicità attraverso la stimolazione dei sensi, scoprire come e perché le altre persone possono donarci benessere, e andare a caccia di un senso e un significato in grado di guidare il nostro viaggio nella vita.
Tutto questo perché?
Perché essere positivi conviene: i problemi si trasformano in occasioni e le persone anziché essere reattive diventano proattive.
Saper essere felici e positivi è una soft skill fondamentale perché, soprattutto nelle difficoltà, permette di trovare soluzioni anziché cercare esclusivamente qualcuno o qualcosa su cui scaricare le colpe.
Questo significa avere Intelligenza Emotiva.
Misura il tuo livello di Intelligenza Emotiva
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Raggiungere la felicità e preservarla. Tutti i segreti, scientificamente dimostrati, per essere felici nella vita quotidiana
7 MODI PER ESSERE FELICI E VIVERE OGNI ATTIMO AL MEGLIO
1. CONOSCERE TUTTI I MODI PER ESSERE FELICI
Esiste un solo tipo di gioia? Assolutamente no!
Abbiamo molti modi per trovare la felicità nella vita di tutti i giorni. Pertanto dobbiamo essere pienamente consapevoli di tutte le possibilità che ci vengono offerte per gioire pressoché quotidianamente.
Perché, pur essendo molteplici le situazioni che potrebbero permetterci di essere felici, se le viviamo senza consapevolezza sprechiamo occasioni importanti per realizzare uno dei sogni più intimamente radicati nell’animo umano.
Molti degli stimoli in grado di donarci benessere li viviamo giornalmente, in parte derivano dal nostro sistema evolutivo, perché l’uomo in passato nell’andarli a cercare garantiva la propria sopravvivenza.
Oggi questi trigger primordiali esistono ancora, ma l’averli dati per scontati perché in qualche modo garantiti dalla società in cui viviamo, ha disattivato l’automatismo stimolo appagato = accensione del pulsante del piacere.
Pensiamo ad esempio all’impulso della fame o della sete, due messaggi che il nostro corpo manda per ricordarci di soddisfare un bisogno primario, che una volta esauditi possono generare la sensazione di benessere.
Tutti abbiamo provato il piacere di un bicchiere di acqua fresco dopo ore di arsura sotto il sole estivo oppure quello di un piatto di pasta fumante dopo un giorno di digiuno.
Eppure pochi provano soddisfazione a ogni singolo pasto o nel sorseggiare una bevanda, anche quando il loro sapore è particolarmente gradevole.
Ma allora quanti sono i tipi di felicità che possiamo provare?
L’esempio appena proposto ricade in una forma di felicità che potremmo definire edonica, e che deriva dalla stimolazione dei sensi e dal benessere mentale.
È la soddisfazione di chi sperimenta un piacere biologico primario, non solamente dunque un pasto delizioso, ma anche un’esperienza sessuale o qualche altro godimento fisico come un massaggio o un bagno caldo. Rientra in questa forma di gioia anche il piacere derivante dall’utilizzare le proprie abilità intellettive sia attraverso il gioco (carte, videogiochi, rompicapi…) sia nell’espressione della propria intelligenza (creatività artistica, ricerca scientifica…).
La stimolazione dei sensi e dell’intelletto avviene anche in tutta una serie di attività accomunate da un’intensa ritmica: la musica, la danza, il canto, tutti gli sport sincronizzati e caratterizzati da profonda armonia.
Come la felicità edonica anche quella relazionalederiva dal nostro background evolutivo, perché la si vive quando si realizzano eventi biologicamente indispensabili per la sopravvivenza della specie ovvero, durante l’innamoramento o più in generale quando si costruiscono o intensificano legami con altre persone o, ancora, nel prendersi cura di qualcuno (figli, nipoti, genitori…).
Comprende anche tutte le forme di gioia legate al confronto, cooperativo o competitivo, con altre persone.
È il benessere che si prova quando si compie una buona azione o ci si sente d’aiuto, ma è anche il godimento di chi, attraverso uno sforzo enorme, vince a spese di un rivale.
Un’altra forma di felicità è quella straordinaria, dunque quella che prova colui che esce dall’ordinario o rifugge dalla realtà.
Consiste nel saper sospendere il proprio senso della realtà abbastanza a lungo da godersi una finzione o un evento straordinario.
Tipica di chi sogna ad occhi aperti, e si diletta con la scrittura o il teatro, oppure più semplicemente guardando la TV.
Ma è anche il piacere che provano coloro che affrontano le proprie paure in contesti completamente sicuri, sia questo un giro sulle montagne russe oppure la visione di un film horror.
Appartiene a questo tipo di felicità anche la gioia provata nel sentirsi fortunati perché beneficiari di un inaspettato evento positivo, come ad esempio la vincita di denaro oppure il trovare parcheggio nell’ora di punta nel giorno del mercato.
Tutt’altra letizia è quella che si genera attraverso la ricerca della spiritualità.
È il benessere che prova chi pratica la meditazione, chi prega e vive intensamente la propria fede religiosa, chi sa contemplare e isolarsi dalle preoccupazioni del mondo.
Questo tipo di piacere, che potremmo definire come spirituale, viene vissuto tutte le volte che ci si allontana mentalmente da persone e situazioni per canalizzare tutta l’attenzione esclusivamente verso il proprio io più profondo e/o verso Dio, raggiungendo così un intimo senso di libertà.
Per altre persone il piacere della libertà si raggiunge soprattutto attraverso il dinamismo, sia questo il partecipare a un progetto, un’esperienza o una sfida.
Coloro che vedono il proprio interruttore della felicità accendersi nel sentirsi vitali, tendono a definirsi persone d’azione.
La felicità dinamica vede, nelle sue forme più estreme, l’esposizione deliberata e volontaria a uno o più rischi. Tipico è il caso di chi prova eccitazione durante la pratica di uno sport estremo.
Anche i ricordi così come le anticipazioni di possibili scenari futuri possono generare benessere.
Lo stimolo che accende il bottone della letizia non è presente nel momento in cui la luce illumina il presente.
È un piacere asincrono che può dipendere da un ricordo passato, dunque da quello che è stato immagazzinato nella nostra memoria, oppure da un evento atteso, un momento che prevediamo di vivere nel nostro futuro e che verosimilmente sarà foriero di enorme gioia.
Tutti poi abbiamo vissuto una forma di felicità che potrebbe essere definita come alleviante.
L’abbiamo provata, chi più chi meno, nei momenti in cui si è interrotta un’angoscia o una sofferenza.
È il sollievo percepito con la sospensione di uno stato d’ansia, insicurezza o semplice noia, ma anche l’interruzione di un dolore fisico prolungato.
Esiste infine anche una forma di godimento perverso. Lo vive chi consapevolmente ignora o rifiuta la sofferenza propria o altrui. Comprende forme “squilibrate” o francamente patologiche, quali gli atteggiamenti sado-masochistici di chi gode nell’infliggere sofferenza verso gli altri (il torturatore o il terrorista), oppure a se stessi (la persona anoressica, per esempio).
Eccola qui, dunque, tutta la gioia possibile. Questa categorizzazione rappresenta la sintesi di alcune importanti ricerche scientifiche condotte sul tema della felicità (Morris 2004; Furnham & Christoforou, 2007).
Eppure, pur essendo moltissime le modalità con cui raggiungere uno stato di felicità, ognuno ha le sue preferite e alcune possono sortire un effetto contrario.
Da cosa dipende la risposta ai molteplici stimoli potenzialmente in grado di generare gratificazione nell’uomo?
Qualcuno sostiene che la nostra personalità abbia un importante ruolo a riguardo.
Secondo uno studio condotto in Olanda su circa 12000 gemelli e loro fratelli, si è scoperto che una fetta consistente della felicità è spiegabile dalla presenza o meno di due geni, rispettivamente sul cromosoma 1 e 19 (Bartels et al. 2010).
Un’altra importante indagine ha dimostrato una forte correlazione tra la variante “lunga” oppure quella “corta” del gene 5-HTTLPR, la prima codifica un maggior numero di trasportatori della serotonina (ormone chiave nell’attivazione del benessere soggettivo), e la rispettiva tendenza ad essere ottimisti oppure con un umore depresso (De Neve 2011).
Probabilmente il nostro assetto genetico stabilisce una “linea di base”, o punto di partenza, dal quale si elevano i picchi di gioia.
Sicuramente un contributo così importante della genetica nel favorire il benessere soggettivo giustifica quella fetta di popolazione che è in qualche modo cronicamente allegra e ottimista, o per contro, perennemente triste e pessimista.
Secondo un importante studio condotto nel 2018 la nostra sensazione di soggettivo benessere è riconducibile, nel 39-63% dei casi, al carattere di una persona.
In particolare, un’indole estroversa (tipica di colui che è socievole, entusiasta, loquace e attivo) si associa a un’alta probabilità di condurre una vita piena di soddisfazioni, mentre al contrario, un temperamento nevrotico (caratterizzato da ansia, timore, importanti sbalzi d’umore e tensione) aumenta la possibilità di vivere l’esperienza della depressione (Sun, Kaufman, & Smillie 2018).
Esiste però un modo per “annullare” l’effetto della personalità sul soggettivo benessere.
Ebbene sì, anche i nevrotici hanno una possibilità per tornare a essere felici!
C’è ampio margine per ogni tipo di personalità, sia questa introversa, distaccata, competitiva, cauta o timorosa.
È sufficiente essere intelligenti…
2. PUNTARE TUTTO SULL’INTELLIGENZA EMOTIVA
L’intelligenza a cui mi riferisco non ha nulla a che vedere con il quoziente intellettivo.
È una forma di intelligenza che permette di essere felici senza necessariamente dover passare attraverso un cambio forzato della propria personalità.
Richiede il riconoscimento e la gestione dei sentimenti propri e altrui. Questo tipo di abilità è oggi universalmente definita come “intelligenza emotiva”.
I primi a dare una definizione sintetica ma efficace di questa forma di intelligenza furono i ricercatori Peter Salovey e John D. Mayer, delle Università statunitensi rispettivamente di Yale e del New Hampshire nel 1990, che la descrissero come “l’abilità di controllare i sentimenti e le emozioni proprie e altrui, di distinguerle tra loro e di utilizzare tali informazioni per guidare i propri pensieri e le proprie azioni” (Salovey & Mayer, 1990).
L’intelligenza emotiva si divide in quattro dimensioni:
- La percezione dei sentimenti vissuti. Proviamo a pensare a tutte le volte che siamo stati delusi o arrabbiati, oppure tristi, spaventati, agitati, in qualche modo in balia di un’emozione forte. Quanto siamo stati bravi e veloci a riconoscere il nostro stato d’animo? Colui che è abile in questa dimensione riconosce velocemente il proprio stato d’animo e d’innanzi a qualunque decisione mantiene tale consapevolezza.
- La capacità di gestire e regolare le proprie emozioni. Non basta saper riconoscere che ci si trova in una condizione di alterata emotività, è indispensabile essere preparati a tornare rapidamente in una situazione psicologica di normalità. Questo significa saper controllare le proprie emozioni, pertanto essere in grado di agire in modo tale da contrastare sentimenti forti e mitigare l’impatto negativo che potrebbero avere sul nostro vissuto quotidiano. Tipico è l’esempio di colui che capisce di essere in collera per qualcosa, e in procinto di prendere una decisione in larga parte dettata dal rancore, si prende un attimo per allentare la tensione, magari attraverso una passeggiata.
- Essere empatici, saper riconoscere e comprendere le emozioni negli altri. Le persone particolarmente dotate in questa terza dimensione sono molto abili nel percepire i sentimenti altrui e anche nel prevederli; vengono definite come sensibili, attente, capaci di rivelarsi ottime consolatrici e/o consigliere.
- La capacità di aumentare le proprie capacità relazionali. Prevede il riconoscimento delle proprie e altrui emozioni, il loro controllo, e infine la capacità di saperle guidare in una direzione costruttiva e in grado di aumentare le performances (Davies, Stankov, & Roberts, 1998).
La persona poco dotata di intelligenza emotiva accusa gli altri o le circostanze per le proprie disgrazie, ne rimane travolto perché non si ritiene responsabile di ciò che sta vivendo e attribuisce la negatività a situazioni indipendenti dalla propria volontà.
Il problema altro non è che un ostacolo, un fastidio, una tegola caduta sulla testa.
L’individuo emotivamente intelligente al contrario dirà: “ok, non mi piacciono le emozioni che sto vivendo, sono causate da questa circostanza e ora devo capire come posso superarla”.
Il problema in quest’ultimo caso è vissuto come un’opportunità di crescita e i sentimenti negativi vengono percepiti come insegnamenti di vita.
3. FAR PRODURRE AL NOSTRO CORPO I NEURORMONI DELLA FELICITÀ
Il nostro corpo può dire alla mente di essere felice.
Lo può fare attraverso il rilascio di alcuni neurormoni che in modo diretto o indiretto producono una sensazione di benessere.
Dobbiamo semplicemente dire al nostro corpo di produrre e immettere nel circolo sanguigno gli “ormoni della felicità”. Lo si può fare con estrema facilità.
Vediamo prima di tutto quali sono queste molecole della gioia.
Una delle più importanti è la dopamina, un neurotrasmettitore ampiamente studiato perché associato a tanti aspetti del comportamento umano, tra cui la ricerca del piacere e delle motivazioni, la capacità di attenzione e di apprendimento, ma anche la tendenza a sviluppare dipendenze.
Tutte le volte che proviamo un brivido di eccitazione legato a un sogno a portata di mano, sia questo lavorativo, sportivo, sentimentale eccetera, quello strepitoso impulso è dovuto a elevati livelli di dopamina nel nostro corpo.
Per contro, quando manca questo ormone si percepisce apatia, fatica, incapacità di provare piacere, difficoltà di interazione con gli altri, sbalzi d’umore, insonnia, incapacità di concentrazione, assenza di motivazioni e maggiore propensione a sviluppare dipendenze.
Un altro neurotrasmettitore della felicità è la serotonina.
Questa molecola ha diversi ruoli nel nostro corpo, ma sicuramente quando presente in abbondanza alimenta in noi soddisfazione, felicità e ottimismo.
Quando i livelli di serotonina sono ridotti l’umore risulta deflesso, infatti molti farmaci antidepressivi come il Prozac e lo Zoloft (noti come inibitori del reuptake/recupero della serotonina) agiscono proprio aumentando la disponibilità di questo ormone a livello delle cellule cerebrali.
Anche le endorfine sono neurotrasmettitori della felicità.
Assomigliano agli oppiacei (oppio e derivati) nella loro struttura chimica e hanno proprietà analgesiche.
Le endorfine sono prodotte nel nostro cervello dalla ghiandola pituitaria e dall’ipotalamo, e vengono rilasciate anche in risposta al dolore e allo stress perché aiutano ad alleviare l’ansia e la depressione.
Durante lo stress viene rilasciato anche un altro importante ormone, l’ossitocina, caratterizzato da un ampio spettro di effetti comportamentali e fisiologici.
Un ruolo fondamentale di questa molecola è quello di facilitare le relazioni con gli altri e stimolare atteggiamenti sociali positivi.
Per tali motivi l’ossitocina viene considerata a pieno titolo un ormone della felicità, perché garantisce una vita relazionale soddisfacente, dunque porta al benessere psicofisico facilitando le nostre interazioni umane.
L’accensione del pulsante della gioia dipende poi dalla melatonina, sostanza nota per le sue proprietà sonnifere, ma contemporaneamente capace di modulare sia i livelli di cortisolo e adrenalina (entrambi coinvolti nella risposta di lotta o fuga durante lo stress), sia quelli della serotonina e della dopamina.
Perché le cose funzionino bene è necessario infine che vi sia un equilibrio tra impulsi eccitatori e inibitori a livello delle nostre connessioni neuronali. Il principale neurotrasmettitore inibitorio che regola molti processi fisiologici e psicologici è l’acido gamma-amminobutirrico (GABA).
Quando vi sono disfunzioni del sistema GABA si possono verificare numerosi disturbi neuropsichiatrici, tra cui ansia e depressione.
Questo porta a pensare che il GABA abbia un ruolo anti-ansia e anti-panico (Farhud, Malmir, & Khanahmadi, 2014).
Le molecole della felicità sono dunque molte, con funzioni diverse e in parte ancora da chiarire, tutte prodotte dal nostro organismo come risultato dell’esposizione ad alcuni stimoli.
Chi non vorrebbe ogni tanto una piccola iniezione di queste molecole?
La buona notizia è che abbiamo a disposizione moltissime strategie, per lo più di facilissima attuazione, per “sparare” nel nostro sangue dosi massicce di questi ormoni.
Ecco alcuni modi per stimolare il nostro corpo a produrre le molecole della gioia:
- Ascoltiamo buona musica. Cerchiamo un brano che non ascoltiamo da tempo e che ci è sempre piaciuto molto. Nell’epoca di internet è facile trovare rapidamente, e ascoltare gratuitamente, qualunque genere musicale. Gustiamoci la ricerca del pezzo e lasciamoci andare in respiri profondi durante l’ascolto. La dopamina è già in circolo, fin dal momento in cui abbiamo iniziato a pensare alla canzone che tanto amiamo. “Ehi, ce la posso fare!” (Salimpoor, Benovoy, Larcher, Dagher, & Zatorre, 2011).
- Stimoliamo l’olfatto. Diffondiamo nell’ambiente una buona fragranza, anche in questo caso aumenteremo le probabilità di migliorare il nostro umore (Herz, 2009).
- Concentriamoci sugli stimoli tattili. Abbiamo un cane, un gatto, un amico a quattro zampe? Bene, allora è tempo di qualche coccola extra, perché questa aiuterà ad aumentare i livelli di endorfine, ossitocina e dopamina in noi e nei nostri fedeli amici. Questo consiglio ovviamente vale anche per i compagni a due zampe! Se non abbiamo “animali domestici” su cui sfogare la nostra tenerezza non diamoci per vinti, prenotiamo una seduta di massaggi. La manipolazione è infatti capace di ridurre del 30% circa i livelli di cortisolo e contemporaneamente aumentare, in percentuali analoghe, sia la dopamina che la serotonina (Field, Hernandez-Reif, Diego, Schanberg, & Kuhn, 2005).
- Facciamo un lungo bagno caldo. Quanto lungo e quanto caldo? Secondo uno studio pubblicato nel 2000 sulla rivista scientifica European Journal of Applied Physiology un’ora immersi a 32° centigradi determina una riduzione della frequenza cardiaca pari al 15%, della pressione arteriosa di circa il 10% e dei livelli di cortisolo del 34% (Šrámek, Šimečková, Janský, Šavlíková, & Vybiral, 2000).
- Abbandoniamoci a qualche grassa risata. Esercitiamoci simulando un sorriso a 32 denti e manteniamolo per circa 5 secondi, ripetiamo il riscaldamento per 5 volte. Ora ci siamo, i muscoli facciali sono caldi e pronti ad assecondare una o più risate di gusto. Digitiamo su google la parola “barzellette” e guardiamoci almeno cinque video di bravi barzellettieri. Condizione indispensabile è che colui che racconta la barzelletta si lasci andare in una grassa risata al termine della battuta finale. Perché i sorrisi sono contagiosi, e vedere una persona che ride ci induce a emularla. Questo fenomeno, noto come “mirroring emotivo” (rispecchiamento emotivo), fa sì che colui che guarda una persona ridere tenda inconsciamente a simularne l’espressione facciale al fine di ricreare una risposta emotiva simile, per meglio comprendere le emozioni ed entrare in sintonia con chi ha di fronte (Wood, Rychlowska, Korb, & Niedenthal, 2016).
- Seguiamo un’alimentazione sana. Facciamo lo sforzo di mettere da parte il cosiddetto cibo spazzatura, seguiamo una dieta genuina, molto saporita e soprattutto leggera. Questo significa innanzi tutto eliminare i cibi con più di 5-6 ingredienti. È una regola facile da seguire – è sufficiente guardare sulla confezione e verificare il numero di ingredienti dichiarati – che permette rapidamente di capire se un cibo è eccessivamente processato. Più è lungo l’elenco, maggiore sarà la probabilità di trovarci di fronte a un alimento poco salubre, ricco di additivi e conservanti.
- Dedichiamo tempo all’esercizio fisico. Non ha importanza lo sport che si decide di praticare, non deve essere però troppo leggero, inoltre sarebbe preferibile se offrisse la possibilità di stare a contatto con la natura, in modo tale da stimolare contemporaneamente i nostri sensi. Occorre andare a caccia dello “sballo del corridore” (the runner’s high), ovvero di quella sensazione di euforia derivante da una pratica sportiva prolungata (non solamente la corsa). Questo senso di benessere non è esclusivamente psicologico ma anche il frutto del rilascio delle endorfine da parte dell’ipofisi in risposta alla pratica di uno sport. Per far sì che la ghiandola produca e secerna quest’ormone della felicità è necessario dedicare almeno una trentina di minuti consecutivi allo svolgimento di uno o più esercizi fisici (Erickson, Hillman, & Kramer, 2015).
- Pratichiamo lo yoga e la meditazione. Coloro che le praticano hanno un asso nella manica per tentare di ristabilire il proprio benessere, soprattutto nei momenti più bui.
- Dedichiamo un congruo numero di ore al sonno. Il giusto riposo è fondamentale per preservare un adeguato equilibrio psicofisico. In gioco c’è la nostra melatonina e i suoi effetti benefici su tutti gli altri ormoni della gioia. Al di là della miriade di ricerche scientifiche che lo dimostrano, chiunque lo ha provato sulla propria pelle: se dormi male ti svegli di malumore.
- Cerchiamo una buona compagnia. Spendiamo del tempo con chi ci fa stare bene. Quando si allacciano e mantengono rapporti interpersonali significativi il nostro corpo rilascia l’ossitocina, uno dei neurormoni della felicità.
- Andiamo alla ricerca di qualcosa che ci interessa. I nostri antenati cercavano nuovi posti per cacciare, pescare o raccogliere i frutti della terra, lo facevano sì per sopravvivere ma sotto l’inconsapevole impulso della dopamina, liberata in generose dosi ogni volta che veniva trovata una nuova fonte di sostentamento. Il nostro corpo non è cambiato nei secoli, continua a gratificarci ogni volta che scopriamo qualcosa di nuovo e gradevole… dunque dedichiamo tempo per andare a caccia di ciò che ci interessa: quel libro che volevamo leggere da tempo, un brano inedito del nostro cantante preferito, un biglietto per un evento speciale o, perché no, rispolverare la passione per un collezionismo di qualunque genere.
4. SCEGLIERE CIÒ CHE CONTA
La nostra felicità dipende per buona parte dalle scelte e dagli obiettivi che ci poniamo, ovvero dal controllo che abbiamo sulla nostra vita.
Ecco poche regole per scegliere ciò che conta:
- Essere pienamente padroni della nostra solitudine. Questo significa costruire e mantenere ogni giorno relazioni che ci assicurino l’impossibilità di sentirci isolati, se non per scelta.
- Essere generosi. Uno dei modi migliori per creare e intensificare i rapporti interumani lo si può scoprire rispondendo a una semplice domanda: cosa posso offrire al mio prossimo? Donare costituisce il secondo passo per raggiungere e mantenere la felicità.
In uno studio pubblicato sulla rivista Nature Communications nel 2017, a un gruppo di partecipanti fu detto che avrebbero ricevuto una somma di denaro da spendere per qualcun altro, mentre al secondo gruppo i ricercatori dissero che avrebbero ricevuto dei soldi da spendere per se stessi.
A entrambi i gruppi fu poi chiesto di immaginare come avrebbero speso i soldi quando li avrebbero ricevuti.
Dopo aver condotto un esame cerebrale mediante risonanza magnetica per immagini e alcuni test per escludere l’influenza di qualsiasi altro fattore, i ricercatori dimostrarono come la generosità fosse in grado di migliorare significativamente il livello di felicità dei partecipanti (Park et al., 2017).
Tale effetto, indipendente dall’ammontare e dalla tipologia di donazione, si registra anche con il semplice impegno ad essere generosi.
Dunque non è necessario ricorrere a gesti di altruismo estremo, è sufficiente essere predisposti a offrire aiuto, cortesia, ascolto.
- Condurre una vita sana. Cosa significa? Praticare attività fisica moderata con regolarità (trenta minuti al giorno), mangiare abitualmente in modo salutare (adottando la “dieta” per le giornate grigie), prendersi cura del proprio corpo, dedicare un congruo numero di ore al sonno di qualità (almeno otto) e al relax psichico (attraverso la lettura, il gioco, uno o più hobby eccetera).
- Scegliere di nutrire la curiosità, provare nuove esperienze, allargare i nostri orizzonti. Questa è la quarta regola, quella del “Perché no?”. Ovvero la domanda che dobbiamo porci dinnanzi a ogni nuova proposta che si presenta nella vita. Se non abbiamo un valido motivo per rifiutare l’offerta di una nuova avventura… allora tuffiamoci! È un modo efficace per continuare a imparare e mantenere il cervello attivo, vitale e soprattutto felice.
- Accettarsi evitando il confronto. Ci sarà sempre qualcuno più bello, più ricco, più intelligente, più bravo, più sano di noi. In una competizione di qualsivoglia natura, è più appagato il secondo oppure il terzo classificato? La scienza ci insegna che generalmente colui che vince l’argento tende a essere meno contento per via della vittoria sfumata, mentre il terzo è tipicamente più gratificato per il semplice fatto di essere riuscito a salire sul podio evitando un anonimo quarto posto. Viviamo di continui confronti, alcuni chiaramente benefici perché ci aiutano a essere grati di ciò che abbiamo; altri ci sviliscono, svalutano ciò che possediamo e per cui potremmo gioire.
- Diamoci molti obiettivi e cerchiamo un significato in tutto ciò che facciamo. Nella nostra vita dobbiamo darci numerosi e continui obiettivi. Tutti ne abbiamo alcuni che potremmo definire “grandi”, come il raggiungimento di una promozione lavorativa, la conclusione di un percorso di studi, la costruzione di una famiglia e così via. Ma quali sono i nostri obiettivi della giornata, della settimana e del mese? È indispensabile averne molti, affinché ci assicurino piccoli, ma costanti, stimoli ed eventuali successi.
5. ACCETTARE IL DOLORE E LO SCONFORTO
Il dolore, in qualunque forma, è sicuramente un’esperienza sgradevole.
Purtroppo però, nella sua forma acuta, è un evento biologicamente indispensabile che protegge il nostro organismo.
Se tocchiamo una pentola bollente, ad esempio, il dolore percepito ci porterà ad allontanare la cute dalla superficie rovente e, contestualmente, a dissuaderci dal ripetere l’azione.
La nostra innata avversione alla sofferenza facilita l’apprendimento e influenza le nostre azioni future, costantemente volte a prevenire nuove potenziali lesioni.
Il dolore può essere dunque considerato uno stimolo primordiale che, analogamente alla fame, alla sete, al desiderio di dormire, lavora per mantenere l’omeostasi del nostro organismo.
Uno stimolo necessario per il bisogno imperativo di qualunque essere vivente: mantenere un corretto bilanciamento delle funzioni vitali.
Tuttavia il sollievo da una sofferenza non può essere esclusivamente catalogato come il ritorno a una condizione di normalità, perché si associa regolarmente a una sensazione di benessere, alleggerimento e distensione.
Ancora una volta questa gradevole percezione non è semplicemente psicologica.
No, è la conseguenza del rilascio delle endorfine, molecole della felicità appartenenti alla categoria degli oppiacei che, pur avendo un ruolo antalgico sovrapponibile a farmaci e droghe derivati della morfina, sono completamente prive di effetti collaterali.
Le endorfine oltre a ridurre il dolore suscitano sentimenti di euforia, influenzano l’appetito, amplificano le percezioni dei sensi, favoriscono il rilascio di ormoni sessuali e migliorano la risposta immunitaria (Leknes & Tracey, 2008).
La sofferenza non piace a nessuno, masochisti a parte.
Eppure non tutto il dolore viene per nuocere, perché la felicità non la si ottiene massimizzando il piacere e evitando in tutti i modi ciò che ci affligge. La vera e profonda gioia la si vive solo sperimentando anche ciò che ci fa star male.
Molti dei nostri momenti più belli li abbiamo vissuti dopo essere passati attraverso sconfitte, perdite o dolori intensi.
È la nascita di un figlio dopo il travaglio, la vittoria di una gara importante preceduta da mesi di allenamenti intensi e tentativi falliti, la promozione ottenuta attraverso sacrifici e rinunce.
La sofferenza, vissuta ovviamente a piccole dosi, amplifica il piacere e riduce i sensi di colpa.
È esperienza comune premiarsi, coccolarsi, concedersi una piccola eccezione dopo aver vissuto una qualche forma di patimento.
Il dolore ci risveglia dal torpore, ci riporta con violenza nel nostro corpo, nel momento presente, ci unisce agli altri, ci rende più generosi.
Quando succede una tragedia in una comunità i sopravvissuti improvvisamente abbandonano i loro piccoli dilemmi e affanni, si rimboccano le maniche per aiutarsi vicendevolmente, condividono ciò che hanno, si stringono l’un l’altro in un conforto reciproco.
Il dolore ci riporta con la mente sulle cose che per noi contano veramente.
Meglio viverlo e percepirlo come qualcosa di imprescindibile dalla nostra stessa felicità.
6. VIAGGIARE NEL TEMPO
Pensate di non poter viaggiare nel tempo?
Sbagliato! Ognuno di noi lo può fare, e lo deve fare se vuole davvero essere felice.
Si viaggia nel tempo con il pensiero, ed è una risorsa straordinaria alla quale possiamo attingere in qualunque momento, sia progettando il domani sia ricordando il passato, viaggiando nei ricordi.
Le dimensioni temporali in cui la mente si può spostare sono fondamentalmente cinque.
- Essa viaggia nei ricordi negativi, ci riporta a uno spiacevole evento passato e riflette una visione problematica.
- Oppure, al contrario, si focalizza su un vissuto positivo trasmettendo sensazioni nostalgiche ma gradevoli e ottimistiche.
- Può ancorarsi a un presente edonistico, enfatizzando i lati gratificanti e focalizzandosi sui piaceri della vita, senza preoccuparsi delle possibili conseguenze future.
- A volte entra in un presente fatalistico, caratterizzato dalla convinzione di ingovernabilità degli eventi, dove nulla ha più importanza perché la vita e il domani appaiono indipendenti dalla volontà.
- Infine viaggia nel futuro fissando obiettivi, pianificando attività, offrendo certezza di poter determinare il corso degli eventi (Zimbardo & Boyd, 2015).
L’abbandono della mente in un’unica dimensione è sicuramente controproducente.
Ad esempio, si può rimanere permanentemente concentrati sul futuro, ottenere un’ottima carriera ma, ciò nonostante, non riuscire a raggiungere la felicità per l’incapacità di vivere nel presente e spostarsi di tanto in tanto nel passato.
Dobbiamo riuscire a guidare la nostra mente verso quella che gli esperti chiamano la “Positive Mental Time Travel” (viaggio mentale positivo attraverso il tempo).
Ovvero, occorre spostare i pensieri il più possibile in tre sole dimensioni: nei ricordi positivi, nel presente edonistico e nel futuro.
I primi costituiscono le nostre radici, ci legano alla nostra identità e ai nostri affetti.
Il presente edonistico, fatto di esperienze che ci portano a esplorare il mondo, ci offre l’energia per andare avanti.
Infine guardare al futuro ci dona le ali per sorvolare sulle difficoltà e sulle rinunce del momento e viaggiare spediti verso traguardi ambiziosi.
7. SORRIDERE, PERDONARE ED ESSERE GRATI
Sembra un’ovvietà, ma ridere aumenta la probabilità di gioire.
Indipendentemente dal fatto che la risata sia la conseguenza di un momento ameno o al contrario la sua generatrice, essa porta con sé sempre una serie di caratteristiche positive.
Contagiosa al pari di un virus, conferisce un piacere analogo a quello di una potente droga, senza però effetti collaterali, con beneficio sia sulla mente che sul corpo.
Non si tratta di una mera sensazione psicologica, ancora una volta sono in ballo gli ormoni della felicità.
Ridere provoca infatti il rilascio della serotonina e può migliorare i sintomi della depressione (Cha & Hong, 2015). Inoltre determina la produzione delle endorfine e, non a caso, aumenta in modo significativo la soglia del dolore (Dunbar et al., 2011).
Leggendo le ricerche scientifiche che trattano questo argomento ciò che più mi ha colpito è la modalità con cui in molti casi viene stimolata l’ilarità dei partecipanti: sottoponendoli alla visione per trenta minuti di una commedia in compagnia di un amico.
Questa condizione, sufficiente in laboratorio per registrare l’aumento dei livelli di endorfine, è facilmente riproducibile nella nostra quotidianità.
Basta ritagliarsi una mezz’ora di tempo e avere un buon compagno al nostro fianco.
Non è tutto però, esistono altre valide ragioni per cui preservare il buonumore risulta conveniente: assicura migliori prestazioni lavorative, aumenta il grado di soddisfazione professionale e la coesione all’interno del gruppo di lavoro.
Ogni azienda dovrebbe puntare a mantenere il buonumore al suo interno. Perché oltre ad aumentare la propria produttività riduce la percezione dello stress, il numero di giorni di assenza da lavoro, nonché i casi di licenziamento (Mesmer-Magnus, Glew, & Viswesvaran, 2012).
Per ridere di gusto occorre anche saper perdonare, e chi lo sa fare ha una maggiore probabilità di vivere una vita ricca di momenti gioiosi.
Per offrire alcuni spunti su come diventare più indulgenti, ho provato a elaborare una sintesi dei metodi suggeriti da due grandi esperti in questo ambito psicologico: il professore di psicologia Everett Worthington della Virginia Commonwealth University, e il dottor Robert Enright fondatore dell’International Forgiveness Institute.
Innanzi tutto per arrivare al perdono occorre ammettere di essere stati feriti, senza per questo recitare la parte della vittima.
Cerchiamo di comprendere perché ci sentiamo insultati, umiliati, offesi. Consapevoli di questi sentimenti dobbiamo prendere la decisione di perdonare.
Proviamo a questo punto a metterci nei panni dell’altra persona, anche se fatichiamo a immedesimarci tentiamo di comprendere tutte le possibili motivazioni che hanno determinato l’evento.
Immaginiamo il nostro perdono come un gesto altruistico e non egoistico.
Per farlo torniamo indietro a un evento in cui siamo stati noi gli insolenti, riportiamo alla memoria il piacere provato nel ricevere comprensione e indulgenza.
Mettiamo per iscritto l’impegno preso: “oggi ho perdonato Tizio per avermi ferito”.
Periodicamente riscriviamo e rileggiamo i nostri appunti per confermare e mantenere vivo l’impegno preso (Enright, 2015; Worthington, 2001).
E se fossimo noi a dover essere perdonati?
Sappiamo chiedere scusa in modo spontaneo e sincero?
In gioco ci sono i rapporti con le persone che ci stanno accanto e, di conseguenza, la possibilità di essere pienamente felici.
“Scusa, ehi ti ho chiesto scusa, hai capito? Cos’hai tanto da fare l’offeso? D’accordo, d’accordo ho capito… Dai mi dispiace, va bene?”.
Ecco, forse questo non è il modo migliore con cui approcciarci a una persona che abbiamo offeso.
Per “scusarci” malamente è meglio tacere.
Ammettiamolo: è difficile chiedere perdono in modo autentico.
Tuttavia se riusciamo nel nostro intento, allora proveremo un senso di “leggerezza” e pace interiore immensi. Allora vale la pena imparare a farlo come si deve.
- Prima regola: la parola “scusa” non basta. Dobbiamo dire perché chiediamo perdono, in cosa ci sentiamo colpevoli e quali sentimenti proviamo.
- Seconda regola: riconosciamo le conseguenze che abbiamo provocato. La nostra insolenza cos’ha causato? Offendendo un’altra persona l’abbiamo anche umiliata dinnanzi ad altri? È il caso di chi offende il partner di fronte a famigliari o amici, oppure oltraggia il collega davanti al capo… Certamente dovremmo scusarci per aver calpestato il nostro interlocutore, ma sarà indispensabile anche ammettere di averlo svergognato: “mi dispiace perché ti ho ferito e ti ho anche umiliato davanti a…”.
- Terza regola: tentiamo di rimediare. Facciamolo senza fiori, serenate, gesti teatrali, semplicemente con il cuore. Comunichiamo il nostro dispiacere, magari in più occasioni, e facciamolo seguire da azioni coerenti e riparatrici.
Essere riconoscenti per qualcosa, o per la vita stessa, può portare pace, gioia, salute fisica e mentale, relazioni interpersonali più soddisfacenti… Così si dice.
Effettivamente la teoria che la gratitudine possa essere benefica è affascinante e convincente, ma è anche dimostrata scientificamente?
Nel 2003 i ricercatori Robert Emmons e Michael McCullough, rispettivamente dell’Università della California (Davis) e dell’Università di Miami, condussero alcuni interessanti studi per rispondere al quesito appena proposto.
Nel primo esperimento furono reclutati circa 200 studenti e divisi in tre gruppi cui fu chiesto, per un periodo di 10 settimane, di scrivere:
- al primo gruppo cinque cose successe nella settimana precedente per cui essere riconoscenti (condizione di gratitudine),
- al secondo cinque problemi incontrati la settimana precedente (condizione di fastidio),
- al terzo cinque episodi non legati né a insofferenza né a piacere (condizione di controllo).
Bene, ripensare e scrivere un gradevole evento passato, come ad esempio la generosità di un amico o la visione di un tramonto suggestivo, si rivelò in grado di determinare un aumento della felicità percepita, conferire un maggiore ottimismo e aumentare gli esercizi fisici svolti durante la settimana.
Gli stessi ricercatori reclutarono poi un gruppo di adulti con disturbi neuromuscolari (quali, ad esempio, coloro sopravvissuti alla poliomielite), afflitti da dolori muscolari e/o articolari, e sottoposero una metà alla condizione di gratitudine, analoga all’esperimento precedente, mentre alla condizione di controllo la restante parte (in questo caso i partecipanti scrivevano le loro esperienze quotidiane, non positive né negative).
Dopo ventun giorni coloro assegnati alla condizione di gratitudine risultarono più soddisfatti della loro vita, più ottimisti riguardo al futuro e, soprattutto, riferirono una migliore qualità del sonno, e sappiamo bene quanto sia importante dormire bene per sentirsi di buon umore (Emmons & McCullough, 2003).
Dunque essere riconoscenti per qualcosa o, più semplicemente, ringraziare per una delle tante cose che troppo spesso diamo per scontate, come l’esistenza stessa, è sicuramente utile per attivare il nostro interruttore della gioia.
Esercitiamoci ogni giorno a dire grazie alle persone che ci circondano e aiutano nelle nostre piccole e grandi faccende; i credenti ringrazino Dio e tutti gli altri il cielo, la fortuna o se stessi, perché a ben guardare c’è sempre qualcosa di buono per cui essere grati.
Grazie per il bicchiere mezzo pieno! Adesso sappiamo che conviene saperlo vedere ed essere riconoscenti di poterlo assaporare.
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