Aiutare e collaborare (saper offrire ma anche chiedere un supporto efficace)
S.O.S., segnale internazionale di aiuto, è l’acronimo di Save Our Souls ovvero salvate le nostre anime.
Quante volte abbiamo raccolto richieste di questo tipo oppure non le abbiamo sapute ascoltare o magari siamo stati noi stessi a lanciarle?
Poco importa che la difficoltà sia nostra o altrui ciò che conta è conoscere cosa si nasconde dietro l’insuccesso, e cosa determina il successo, di chi offre e chi riceve aiuto.
Per arrivare a ottenere quest’importante traguardo è necessario andare alla scoperta di ciò che accade a livello psicologico in colui che affronta, in prima persona oppure in qualità di supporter, un momento di fragilità.
Metti alla prova le tue abilità di supporter
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ECCO 6 COSE CHE DEVI ASSOLUTAMENTE SAPERE PRIMA DI OFFRIRE O RICEVERE AIUTO
1. NON CI SONO COLPEVOLI
Negli anni sessanta fu elaborato dal ricercatore Melvin J. Lerner dell’Università canadese di Waterloo il concetto di “The Belief in a Just World” ovvero il credere in un mondo giusto, come condizione al quale ogni uomo è predisposto in misura variabile (Lerner, 1965).
Da allora numerose ricerche hanno evidenziato quanto sia diffusa tale convinzione, soprattutto perché frutto dell’innato bisogno umano di giustizia.
L’ipotesi alla base di tale teoria potrebbe essere sintetizzata come segue: gli individui hanno bisogno di credere di vivere in un mondo dove le persone hanno ciò che meritano.
Senza tale convinzione risulterebbe molto più difficile impegnarsi nel lungo termine verso un obiettivo ambizioso ma, nel contempo, verrebbe anche meno una parte di comportamento socialmente utile nelle interazioni quotidiane tra individui.
Di fronte a una persona bisognosa colui che più crede in una giustizia terrena maggiormente si prodigherà nell’aiuto.
Però, in contesti in cui il soccorritore non ha la possibilità di “aggiustare” o “migliorare” in modo significativo le condizioni del bisognoso, coloro che maggiormente sposano la teoria del mondo giusto avranno la tendenza a individuare nella disgrazia altrui una condotta che in qualche modo rende la vittima responsabile del proprio male.
Colpevolizzare lo sventurato rappresenta il tentativo inconscio di difendere la credenza di vivere in una società giusta ed equilibrata.
Il partner ti ha lasciato? Probabilmente non hai saputo ascoltare le sue richieste. Ti hanno bocciato a un esame oppure sei stato rifiutato a un colloquio? Forse non ti eri preparato adeguatamente. Hai perso del denaro in un investimento che appariva promettente? Sei stato ingordo e avido.
Questi esempi descrivono situazioni in cui la persona infelice viene colpevolizzata delle proprie disgrazie; casi in cui si finisce con il pensare “beh, in fondo un po’ se l’è meritato”, per rimanere nella convinzione che, mantenendo un comportamento giusto, una sorte analoga non possa abbattersi su di noi.
Sicuramente l’essere persuasi che a questo mondo esista una giustizia terrena non è l’unica motivazione che spinge alcune persone a individuare nello sfortunato la responsabilità della propria situazione. In molti casi si tratta di semplice e becero pregiudizio.
Adesso sappiamo però che una persona che chiede aiuto molte volte non soffre solamente per le conseguenze fisiche e psicologiche di un evento vissuto, ma anche per il giudizio negativo espresso da coloro che gli stanno accanto.
Dunque vogliamo davvero aiutare qualcuno?
Bene, allora partiamo dal presupposto che non siamo di fronte a un colpevole bensì a una persona che chiede soccorso.
Pertanto prima di offrire supporto elaboriamo mentalmente ogni eventuale accusa che inconsciamente stiamo attribuendo al soggetto bisognoso.
Ma se siamo noi quelli ad avere bisogno di soccorso?
Allora dobbiamo prima di tutto tentare di riconoscere i nostri eventuali sensi di colpa. Perché se ne abbiamo diventa importante capire se siamo davvero responsabili della situazione in cui ci troviamo.
Possiamo pensare di avere una responsabilità personale quando il nostro comportamento ha danneggiato qualcun altro, quando sapevamo a cosa andavamo incontro e avremmo avuto sia la possibilità sia la capacità di agire diversamente.
In situazioni di questo tipo la cosa migliore è individuare l’errore commesso e ammetterlo nel momento in cui viene richiesto soccorso, perché la probabilità di ottenere un aiuto vero sarà maggiore.
Ad esempio una persona abbandonata dal proprio partner perché colta in compagnia dell’amante, dichiarando immediatamente l’errore al proprio confidente aumenterà le chances di ottenere un miglior supporto psicologico.
Se però avvertiamo un senso di colpa nonostante il fatto che in nulla siamo responsabili della condizione in cui ci troviamo, allora diventerà prioritario lavorare sia sul nostro concetto di giustizia terrena, sia sui nostri pregiudizi. Perché la sensazione di essere in qualche modo responsabili della nostra disgrazia genera vergogna e spesso inibisce la richiesta d’aiuto.
2. IL SENTIMENTO DI VERGOGNA È SEMPRE IN AGGUATO
Se riteniamo che la gente possa pensar male di noi allora proveremo sentimenti di inadeguatezza e inferiorità che inevitabilmente ci porteranno a chiusura e isolamento.
Questo è ciò che accade a molte vittime di abusi, violenze e bullismo, oppure a coloro che vivono condizioni di salute particolarmente “delicate”, quali ad esempio l’obesità, l’infertilità o l’impotenza.
Nel 2011 venne condotta una ricerca su un gruppo di studenti universitari del Taiwan, ai quali venne detto che avrebbero partecipato a un esperimento il cui intento era di valutare le loro capacità motorie attraverso una piccola competizione volta a misurare i tempi di reazione.
Al termine della prova ogni partecipante venne singolarmente convocato per la comunicazione della propria performance, tuttavia a una metà (gruppo in cui veniva indotto il sentimento di vergogna) venne detto che aveva perso la competizione contro una persona che si era rivelata particolarmente scarsa nel test.
Dopo aver comunicato loro l’impietosa sconfitta venne inoltre fatta cliccare l’icona “completamento” che immediatamente apriva una pagina web pubblica che esponeva la classifica ed evidenziava il nome del partecipante nell’ultima posizione della graduatoria.
Dunque a una metà dei partecipanti veniva provocato un sentimento di vergogna attraverso due semplici passaggi: il primo quello di comunicare la sconfitta contro una “schiappa”, e il secondo pubblicizzare la scarsa performance.
Al contrario, agli studenti nel gruppo di controllo non venne detto alcunché riguardante il risultato del loro avversario, né venne mostrata la classifica sulla pagina web.
A questo punto i ricercatori chiesero ai partecipanti di cimentarsi nello sviluppo di un’idea pubblicitaria, offrendo loro la possibilità di svolgere il lavoro singolarmente o in coppia con un altro studente.
Coloro in cui venne scatenato il sentimento di vergogna scelsero di lavorare in solitudine nel 73% dei casi, mentre nel gruppo di controllo solo il 41% optò per l’isolamento.
Tale studio rivelò inoltre come la vergogna sia in grado di scatenare un’analoga reazione anche di fronte alla scelta se giocare (o rilassarsi) in solitudine oppure in compagnia.
Il dato più allarmante emerse infine quando ai partecipanti venne chiesto di svolgere un compito particolarmente arduo: coloro in cui era stato scatenato il sentimento di vergogna insistettero più a lungo prima di ricorrere alla possibilità di chiedere aiuto a un compagno (Chao, Cheng, & Chiou, 2011).
Numerose ricerche confermano i risultati appena esposti: sentirsi “sbagliati” porta all’auto-isolamento, riducendo il desiderio di affiliazione e alimentando atteggiamenti egocentrici (Gilligan, 2003; Covert, Tangney, Maddux, & Heleno, 2003; Lindsay-Hartz, De Rivera, & Mascolo, 1995).
Già, ma come fare per non sentirsi sbagliati???
3. SMETTERE DI “SENTIRSI SBAGLIATI” È POSSIBILE
Per gestire e limitare l’imbarazzo vissuto nel momento del bisogno si possono seguire i quattro passaggi alla base della “shame resilience theory” (la teoria della resilienza alla vergogna).
- La prima fase di questa teoria prevede il riconoscimento del sentimento di vergogna e degli stimoli che lo scatenano, richiede pertanto che si impari a distinguere tra senso di colpa e vergogna con l’obiettivo di individuare tutti i fattori e le circostanze che scatenano un sentimento di umiliazione e imbarazzo.
- Il secondo passaggio comporta una demistificazione, contestualizzazione e normalizzazione di tutte quelle aspettative socialmente e culturalmente definite che provocano vergogna. In questa fase si acquisisce pertanto una consapevolezza critica capace di neutralizzare paure e accuse. Si arriva così a pensare: “non sono l’unico che ha attraversato questa difficoltà”, “non devo essere perfetto” e “questa esperienza non mi rende una cattiva persona”.
- Il terzo step passa attraverso la ricerca di persone con problemi analoghi. Il confronto e la connessione con chi vive o ha vissuto situazioni sovrapponibili alla nostra è sempre utile perché elimina la sensazione di solitudine e amplifica la percezione di sentirsi compresi. Il dialogo con chi conosce bene un problema si traduce costantemente in un supporto ricco di consigli utili e momenti di ritrovato ottimismo.
- La quarta e ultima fase consiste nel parlare liberamente dei propri sentimenti di vergogna. Si basa sull’importanza di incoraggiare a esprimere le proprie emozioni, di esternare i propri bisogni (di comprensione, conforto, amore, sostegno…) solo dopo aver ammesso l’esperienza del disagio. Per farlo spesso è necessario creare un ambiente sicuro intorno a noi, un posto dove ci sentiamo tranquilli, accettati, supportati e amati nonostante tutto.
Non è facile arrivare a questo punto. Quest’ultimo passaggio richiede tuttavia anche la capacità di fare “pulizia” tra le persone frequentate, andando a escludere tutte quelle che non solamente non aiutano ma ostacolano attraverso una completa mancanza di sensibilità (Hernandez & Mendoza, 2011).
4. ESISTONO OSTACOLI PREVEDIBILI CHE IMPEDISCONO IL SOCCORSO
Quando decidiamo di soccorrere qualcuno o di chiedere aiuto dobbiamo sempre tenere a mente che esistono degli ostacoli prevedibili.
Sono fondamentalmente due: la mancanza di tempo e la mancanza di empatia.
Facciamo un salto indietro nel tempo e andiamo al lontano 1973, siamo al seminario teologico di Princeton nel New Jersey, e quaranta studenti stanno prendendo parte a un esperimento che apparentemente sembra volto a valutare l’educazione religiosa e le vocazioni dei partecipanti.
Lo studio prevede due fasi, una caratterizzata dalla compilazione di un questionario in un edificio e l’altra contrassegnata dal tenere un discorso, nell’edificio prospiciente, sul lavoro oppure sulla parabola del Buon Samaritano. Proprio la parabola che tutti conosciamo e che tanto dovrebbe scuotere la coscienza e stimolare un atteggiamento altruistico (quanto meno in coloro che partecipano a un seminario teologico).
A ciascuno studente è stata data un’indicazione temporale nel raggiungere il secondo edificio, ma in misura variabile.
- Nei partecipanti inconsapevolmente inclusi nella condizione di “molta fretta” l’assistente del ricercatore guardando l’orologio afferma: “Oh, sei in ritardo, ti stavano aspettando pochi minuti fa, dobbiamo muoverci, l’assistente dovrebbe aspettarti ma faresti meglio a sbrigarti, dovrebbe volerci solamente un minuto (ndr: per attraversare la strada ed andare nell’altro edificio)”.
- Gli studenti inclusi nella condizione di urgenza intermedia si sentono dire: “L’assistente è pronto per te, quindi per favore vai dritto”.
- Il terzo gruppo, quello rientrante nella situazione di scarsa fretta, viene tranquillizzato dalla seguente frase: “ci vorranno alcuni minuti prima che siano pronti per te, ma potresti anche iniziare ad andare. Se aspetti lì, non dovrebbe passare molto tempo”.
Bene a questo punto i ricercatori avevano creato tutti i presupposti per verificare le loro ipotesi iniziali, e non dovevano far altro che registrare il comportamento tenuto dai partecipanti lungo la strada per il secondo edificio.
Infatti, in modo apparentemente casuale, ognuno di loro s’imbatté in una persona accasciata sul ciglio della strada (un attore in incognito facente parte dello studio), in evidente bisogno di aiuto.
Per prima cosa i ricercatori scoprirono che non aveva alcuna importanza il fatto che i partecipanti dovessero parlare della parabola del Buon Samaritano oppure delle loro vocazioni. Dunque pensare a quello che per antonomasia viene definito come esempio di bontà ed altruismo, almeno nello spirito cristiano (non dimentichiamo il contesto in cui si svolse l’esperimento: un seminario teologico), in nessun modo influì sulla scelta di soccorrere o meno uno sconosciuto.
Al contrario, la variabile “fretta” si rivelò significativamente correlata al comportamento altruistico.
Più precisamente, solamente il 10% dei partecipanti inclusi nella condizione di “molta fretta” si fermò a prestare soccorso all’attore sofferente, mentre negli studenti appartenenti al gruppo di “scarsa fretta” il 63% si prodigò nell’offrire aiuto (Darley & Batson, 1973).
Ecco dunque che il fattore “tempo” incide pesantemente sulla probabilità di ricevere o offrire assistenza, pertanto se desideriamo stimolare in una o più persone un atteggiamento altruistico o più semplicemente collaborativo dobbiamo eliminare qualunque elemento in grado di generare ansia, frenesia o affanno.
Ma non basta. In molti casi è necessario che si inneschi anche una risposta empatica, pertanto il soccorritore deve immedesimarsi nella vittima, o almeno percepirla come a lui simile, e rimanere emotivamente coinvolto nel disagio altrui.
Questo concetto appare abbastanza scontato se proviamo a calarlo nelle nostre singole realtà. Infatti tutti abbiamo una naturale predisposizione ad aiutare un membro del nostro gruppo (di amici, colleghi, compagni etc.) o una persona verso la quale nutriamo una particolare simpatia, magari perché condivide le nostre stesse passioni.
Questo processo vale anche dinnanzi a uno sconosciuto in evidente stato di necessità?
Per verificare tale ipotesi, un gruppo di ricercatori inglesi condusse nel 2005 uno studio metodologicamente analogo all’esperimento del Buon Samaritano, semplicemente rivisitato in una chiave più moderna e destinato a indagare l’effetto dell’identità e del senso di appartenenza come possibile stimolo al soccorso di un estraneo.
I partecipanti, tutti inconsapevolmente accomunati dall’essere accaniti tifosi del Manchester United, vennero convocati singolarmente presso un edificio per compilare un questionario fondamentalmente volto ad indagare abitudini e “fede” calcistica.
Dopo di che, sempre individualmente, vennero invitati ad andare in un edificio attiguo per la visione di un filmato riguardante una partita di calcio, le reazioni dei tifosi e il comportamento della folla.
Durante il tragitto, proprio come nell’esperimento del Buon Samaritano, un attore in incognito fingeva di essersi infortunato e di necessitare aiuto.
In questo caso tuttavia i partecipanti non avevano subito alcuna pressione di carattere temporale, bensì un condizionamento in grado di innescare o reprimere un sentimento di simpatia nei confronti della vittima. Infatti:
- un terzo dei tifosi si imbatté in una vittima che indossava una maglietta del Manchester United,
- un terzo incrociò un infortunato con T-shirt del Liverpool FC (avversaria per definizione del Manchester United),
- un terzo incappò in una persona indossante una maglietta neutra.
L’esperimento rivelò un primo dato interessante: professare la propria passione per una squadra non si traduce nel perdere il sostegno di uno sconosciuto di fanatismo opposto.
Infatti i Red Devils che incrociarono la vittima, indipendentemente dal fatto che questa indossasse un T-shirt neutra o del Liverpool FC, prestarono soccorso in circa un terzo dei casi.
Tuttavia il risultato davvero significativo fu quello registrato durante l’incontro con un infortunato di medesima fede calcistica.
La sola maglietta del Manchester fu infatti in grado di aumentare la probabilità di ricevere soccorso al di sopra del 90% (Levine, Prosser, Evans, & Reicher, 2005).
Dunque la simpatia, che inconsciamente proviamo per uno sconosciuto che ha gusti o passioni simili alle nostre, ci rende decisamente propensi a prodigarci nell’aiuto.
Esiste tuttavia un altro potente meccanismo in grado di aumentare le probabilità di ricevere o offrire soccorso: il ricreare un senso di appartenenza a un determinato gruppo.
Nella seconda fase dello studio appena descritto, i ricercatori arruolarono un nuovo gruppo di partecipanti (tutti rigorosamente Red Devils) e durante l’incontro nel primo edificio focalizzarono l’attenzione del tifoso su ciò che accomuna chi vive la passione del calcio (indipendentemente dalla fede calcistica).
Questa piccola manipolazione fu in grado di portare la probabilità di soccorso del tifoso del Liverpool FC agli stessi livelli di quello del Manchester, lasciando la povera vittima dalla maglietta bianca impietosamente ignorata in una larga maggioranza dei casi.
Pertanto, se qualcuno riesce a focalizzare la nostra attenzione sul fatto che abbiamo un’identità in comune con la vittima (nell’esperimento è la passione per il pallone, che sta al di sopra dell’amore per una specifica squadra), allora aumenterà anche il nostro desiderio di prestare soccorso.
5. UN AIUTO PUÒ ESSERE CHIESTO IN MODO INTELLIGENTE
Nel presentare una richiesta di aiuto, esistono vere e proprie strategie capaci di aumentare la probabilità di ricevere soccorso e, contemporaneamente, apparire intelligenti (anziché deboli) agli occhi del soccorritore.
Il primo passo è sicuramente quello di chiedere un consiglio piuttosto che esordire con una richiesta diretta di assistenza.
Infatti colui che chiede di essere supportato implicitamente chiede di ottenere un vantaggio personale a scapito delle risorse di chi aiuta.
Al contrario, chi cerca un suggerimento – piuttosto che un aiuto diretto – più o meno consciamente ammette di stimare e/o condividere determinati valori con il potenziale soccorritore.
Inoltre la richiesta di un consiglio lascia intendere la volontà di mantenere il potere decisionale, e di ambire a risolvere personalmente il problema.
Per comprendere meglio tale concetto provate a calarvi nei panni di un potenziale soccorritore, a quale delle seguenti richieste vi sentireste più propensi a rispondere positivamente: “cosa mi raccomanderesti di fare?” oppure “potresti farti carico dei miei problemi e sgravarmi dell’intero fardello?”.
Non vi è dubbio che un approccio morbido, come quello di colui che domanda un consiglio, sia maggiormente efficace nell’ottenere il consenso desiderato.
Questo tuttavia non è l’unico motivo che ci deve spingere ad intraprendere tale strada; perché nel chiedere un suggerimento appariremo come persone particolarmente intelligenti.
Ebbene sì, è sbagliata la convinzione che le persone che più ricorrono ai consigli degli altri siano anche quelle che vengono prevalentemente valutate come incompetenti.
Tale concetto venne dimostrato da un’indagine pubblicata sulla rivista scientifica “Management Science”, nella quale 170 studenti vennero invitati a completare un rompicapo.
Risolto il problema gli venne comunicato che erano stati abbinati a un partner anonimo che avrebbe completato lo stesso problema più tardi. A questo punto:
- una metà dei partecipanti ricevette il seguente messaggio scritto dal proprio partner: “spero che sia andato bene, hai qualche consiglio?”.
- Per l’altra metà il messaggio si limitava semplicemente a: “spero che sia andato bene”.
Nella realtà tale partner non esisteva e il messaggio era generato tramite un computer. Tuttavia agli studenti (ignari di tale inganno) venne successivamente chiesto di stimare la competenza del proprio partner, e di indicare con quale probabilità gli avrebbero chiesto un consiglio su un rompicapo analogo.
Se confrontati con il gruppo di coloro che ricevettero un augurio neutrale (“spero che sia andato bene”), i partecipanti abbinati al messaggio di richiesta di consiglio stimarono il loro partner come maggiormente competente e ammisero una maggiore propensione a ricorrere ai suoi suggerimenti futuri (Brooks, Gino, & Schweitzer, 2015).
Cosa mi consigli di fare? Cosa ne pensi? Potrei chiederti un consiglio?
Sono tutti ottimi modi per lanciare un primo segnale di SOS. Chiaramente però non sempre ci bastano i suggerimenti, a volte abbiamo bisogno di un vero e proprio aiuto.
Allora come fare?
Concentriamo i nostri sforzi nell’elaborare una domanda di aiuto “SMART” (intelligente).
Per illustrare tale acronimo proviamo a calarci nei panni di un giovane che desidera chiedere aiuto all’amico per la stesura di una tesina, la sua richiesta di soccorso per risultare davvero efficace dovrà essere:
S = Specific (specifica): anziché esordire con un generico “mi aiuteresti nella produzione della tesi?” che sicuramente genererebbe nel potenziale soccorritore il timore di sobbarcarsi dell’intero lavoro, meglio specificare fin da subito in quale parte della redazione si desidera ricevere aiuto (ad esempio nella fase di ricerca, oppure in quella di scrittura o ancora di revisione etc.).
M = Meaningful (avere una motivazione reale alla base): perché non fornire fin da subito una giustificazione? È molto più probabile ricevere un sì a una richiesta quando questa viene accompagnata da una ragione. Allora alla semplice domanda “mi aiuteresti nell’editing della tesi?” sarebbe opportuno aggiungere “perché sono una frana nella punteggiatura”. In quest’ultimo caso all’amico interpellato verrebbe implicitamente attribuita una maggiore abilità nella scrittura.
A = Action-oriented (rivolta ad ottenere che venga fatto qualcosa): significa evitare di richiedere un giudizio quanto piuttosto un aiuto concreto. “Potresti rivedere il testo per me e correggere gli errori di punteggiatura?” è sicuramente più efficace di “potresti dirmi se la punteggiatura va bene?”.
R = Real (autentica e non pretestuosa): ricorrere a un aiuto non deve mai essere inteso come tentativo di accollare a qualcun altro un compito ingrato che potremmo ma non vogliamo affrontare noi.
T = Time-bound (con precisi paletti temporali): sempre meglio specificare la scadenza entro la quale si ha bisogno d’aiuto, in questo modo il potenziale soccorritore avrà la possibilità di organizzare le proprie risorse e capire se riesce a supportare il richiedente.
6. ALCUNI ERRORI SONO PREVEDIBILI E VANNO EVITATI
Esistono errori prevedibili?
Purtroppo sì, anche perché in questi casi sbagliare è facile.
Commettere un errore però costituisce un inutile dispendio di tempo e risorse da parte del soccorritore oltreché il rischio di peggiorare la situazione del necessitante.
Infatti chi commette errori grossolani, anche se lo fa ingenuamente e con le migliori intenzioni, rischia di irritare, indisporre o addirittura offendere la persona bisognosa magari senza realizzare l’equivoco.
Le disattenzioni che possono essere commesse in tali contesti sono fondamentalmente catalogabili in quattro tipi:
- di prospettiva,
- di ascolto,
- di presunzione
- di superficialità.
Si parla di un errore di prospettiva quando il soccorritore ricorre al proprio punto di vista per tentare di aiutare il bisognoso.
“Vedrai che con il tempo tutto passerà”, “tutto capita per un motivo” o, peggio ancora, “non sai cosa è successo a me, se ti lamenti tu allora io cosa dovrei fare?”.
In tutti questi casi si utilizza la propria prospettiva per sminuire i sentimenti dell’altro e, inconsciamente, si incita una persona a tornare a essere felice. Purtroppo sentenze di questo tipo possono far sentire una persona sbagliata perché sta soffrendo e, per tale motivo, peggiorare le cose. Infatti molti dolori non possono essere aggiustati attraverso frasi di rito, ma devono essere prima di tutto accettati per poi essere elaborati.
Il secondo errore in cui frequentemente inciampa il soccorritore maldestro è quello di non ascoltare, perché impaziente di offrire una soluzione a lui gradita.
Così facendo si dimentica tuttavia che uno dei bisogni più profondi di una persona è quello di essere ascoltata, e si finisce con l’offrire un consiglio non richiesto.
La sordità nei confronti di chi chiede aiuto presenta due estremi. Da un capo vi è colui che esordisce con un “non ci pensare, vedrai che si sistemerà tutto”. Questa è la frase tipicamente utilizzata da chi non vuole sentire i problemi del bisognoso.
Al capo opposto si colloca il soccorritore che pretende di aiutare la persona che non ha chiesto sostegno. In questo caso il desiderio di esporre il proprio espediente al dilemma viene espresso con un “sì, sì, ho capito. Guarda, per risolvere la situazione devi fare così”.
Tra questi due opposti si collocano le posizioni dei soccorritori che pretendono che chi soffre sia logico oppure che fissano una scadenza al dolore degli altri.
Poi vi sono gli errori di presunzione, ovvero quelli commessi da chi pensa di aver capito tutto e di essere titolare unico della soluzione perfetta.
Coloro che peccano di presunzione sanno, sempre e comunque, come si sente la persona bisognosa.
Più prima che poi proferiscono la fatidica frase “capisco quello che provi”. Attenzione però, tale sentenza non è proibita, ma può essere detta solamente da chi davvero ha vissuto la medesima esperienza dolorosa del bisognoso.
Oltre a prestare attenzione a non commettere errori occorre anche tentare di non essere troppo superficiali.
Infatti non vi è persona più deludente di colui che volta le spalle o, semplicemente, ignora l’amico che si trova in un momento di bisogno.
Magari il fatto non si realizza in modo brutale ma si concretizza con un tentativo goffo di supporto subito seguito da un abbandono. “Ho provato ad aiutarlo”, “io la mia parte l’ho fatta” e… tanti cari saluti.
Ora che sappiamo come fare per evitare di essere superficiali, presuntuosi, sordi ed egocentrici quando raccogliamo un segnale di S.O.S., non ci resta che prestare attenzione a non diventare vittime dell’aiuto offerto.
Perché non si deve mai trascurare la possibilità che il soccorritore venga travolto dai problemi del bisognoso.
Un’antico proverbio recita “quando le radici sono profonde, non c’è motivo di temere il vento”. È proprio nelle nostre radici che si nasconde il segreto di un supporto efficace ricevuto o offerto in un momento di debolezza.
Tuttavia le radici richiedono molto tempo e un clima favorevole per crescere e mantenere salda la pianta al terreno. Non ci è dato sapere come e quando saremo chiamati ad aiutare oppure quando saremo noi in prima persona a dover affrontare e superare una difficoltà.
Quello che possiamo fare fin d’ora è occuparci di rendere forti le relazioni con le persone che ci circondano e che ci vogliono bene. Saranno loro il nostro sostegno più forte e valido quando arriverà la tempesta.
Bibliografia
- Brooks, A. W., Gino, F., & Schweitzer, M. E. (2015). Smart people ask for (my) advice: Seeking advice boosts perceptions of competence. Management Science, 61(6), 1421-1435.
- Chao, Y. H., Cheng, Y. Y., & Chiou, W. B. (2011). The psychological consequence of experiencing shame: Self-sufficiency and mood-repair. Motivation and Emotion, 35(2), 202-210.
- Covert, M. V., Tangney, J. P., Maddux, J. E., & Heleno, N. M. (2003). Shame-proneness, guilt-proneness, and interpersonal problem solving: A social cognitive analysis. Journal of Social and Clinical Psychology, 22, 1-12.
- Darley, J. M., & Batson, C. D. (1973). ” From Jerusalem to Jericho”: A study of situational and dispositional variables in helping behavior. Journal of personality and social psychology, 27(1), 100-108.
- Gilligan, J. (2003). Shame, guilt, and violence. Social Research, 1149-1180.
- Hernandez, V. R., & Mendoza, C. T. (2011). Shame resilience: A strategy for empowering women in treatment for substance abuse. Journal of Social Work Practice in the Addictions, 11(4), 375-393.
- Lerner, M. J. (1965). Evaluation of performance as a function of performer’s reward and attractiveness. Journal of Personality and Social Psychology, 1(4), 355-360.
- Levine, M., Prosser, A., Evans, D., & Reicher, S. (2005). Identity and emergency intervention: How social group membership and inclusiveness of group boundaries shape helping behavior. Personality and Social Psychology Bulletin, 31(4), 443-453.
- Lindsay-Hartz, J., De Rivera, J., & Mascolo, M. (1995). Differenti- ating shame and guilt and their effects on motivation. In J. Tangney & K. Fischer (Eds.), Self-conscious emotions: Shame, guilt, embarrassment, and pride (pp. 274–300). New York: Guilford.
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