Comunicare

Una buona parte del successo sociale, lavorativo e personale è legato alla nostra capacità comunicativa.

Nell’epoca digitale è diventato molto facile prendere parola e rendere il proprio messaggio potenzialmente fruibile da un gran numero di persone, ma sembra ancor più complesso che in passato farlo in modo incisivo.

Perché un messaggio “postato” su Internet colpisca nel segno, occorre padroneggiare le regole che governano la comunicazione non solo moderna, ma anche classica.

Le insidie possono essere molteplici anche quando si ricorre a mezzi più tradizionali.

Lanciare un messaggio davvero efficace significa far sì che questo rimanga nella memoria di chi ascolta: obiettivo difficile, poiché le persone hanno una capacità mnemonica limitata.

È dunque importante, se ad esempio ci troviamo a tenere un discorso davanti a una platea piccola o grande, sapere quali argomenti resteranno potenzialmente impressi.

Ma è altrettanto utile conoscere il potere del coinvolgimento emotivo, sapere quanto lungo deve essere un discorso che mantenga viva l’attenzione di chi ascolta, nonché ricorrere a un linguaggio appropriato.

In gioco non c’è solo l’efficacia del nostro messaggio, ma anche la nostra immagine.

Ecco perché una delle principali soft skills di quest’epoca è quella di saper comunicare in modo tale da riuscire a colpire nel segno.

Metti alla prova le tue capacità comunicative

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CHECKLIST IN 6 PUNTI PER LANCIARE UN MESSAGGIO INCISIVO:

1. UTILIZZIAMO TUTTE LE COMPONENTI DEL LINGUAGGIO

Il contenuto di un discorso, le parole che proferiamo, le affermazioni che cerchiamo di sostenere contano poco se non sappiamo utilizzare tutte le componenti del linguaggio in modo armonioso.

Nel suo libro Silent messages, lo psicologo statunitense Albert Mehrabian spiega che un messaggio è poco persuasivo quando il significato delle parole trasmesse è in contraddizione con il comportamento del soggetto.

Riporta inoltre un’interessante equazione. Il gradimento complessivo di un messaggio trasmesso di persona dipende:

  • per il 7% dal suo contenuto,
  • per il 38% dalla voce, cioè da quella che viene definita una forma di comunicazione paraverbale (tono, volume, velocità e timbro),
  • per il 55% dalle espressioni facciali, dai movimenti e dalla postura, cioè dal linguaggio del corpo (Mehrabian, 1971).

Dunque, nella trasmissione di un messaggio di qualunque natura, tutto quello che circonda le parole assume un peso preponderante nel successo comunicativo, e di conseguenza anche sull’immagine dell’oratore.

In uno studio pubblicato sul Journal Communication Research Reports nel 2011 vennero intervistati sessantasei studenti di un’università brasiliana e cento di un’università degli Stati Uniti, al fine di raccogliere informazioni sulle capacità non verbali dei loro professori.

Possedere grandi competenze non verbali – cercare e mantenere un contatto visivo, avere una buona mimica e gestualità, trovare la giusta inflessione di voce – si rivelò in grado di aumentare la percezione dello studente di trovarsi dinnanzi a un insegnate competente e credibile (Santilli, Miller, & Katt, 2011).

Anche nella vita di tutti i giorni sappiamo bene quanto sia importante utilizzare tutte le componenti del linguaggio: nessuno pretende di essere convincente nel dire “sono felice” se lo fa con un tono di voce basso e piatto, il muso lungo e lo sguardo perso nel vuoto.

2. DECIDIAMO COSA IMPRIMERE NELLA MEMORIA DI CHI CI ASCOLTA

La memoria umana oltre a essere pigra è anche piuttosto prevedibile.

Infatti tutte le volte che ascoltiamo un discorso, la nostra mente tende a memorizzare con maggiore propensione la prima e l’ultima parte, dimenticando con facilità quella centrale.

Non a caso gli esperti di comunicazione affermano che un discorso di successo deve avere un ottimo inizio, una buona chiusura e deve mantenere queste due componenti il più vicine possibile.

Le ragioni di questo comportamento della memoria umana, la cui capienza è limitata, sono da ricercare in due fenomeni: l’effetto “primacy” e l’effetto “recency” (Murdock Jr, 1962).

L’effetto “primacy” è la tendenza a ricordare meglio gli elementi presentati all’inizio rispetto a quelli presentati nella fase intermedia.

Quando riceviamo una serie di nuove informazioni, i primi elementi vengono più facilmente custoditi nella memoria a lungo termine, per via dell’intenso impegno speso nel processare tali dati.

Ad esempio, se ci troviamo di fronte a un test che richiede di ricordare una serie di parole, la nostra tendenza sarà quella di ripetere mentalmente la prima, poi la prima e la seconda, poi ancora la prima, la seconda e la terza e così via.

Ciò che ne deriva è che i primi elementi della lista saranno quelli che verranno prevalentemente ripetuti e pertanto immagazzinati nella memoria a lungo termine.

Tale fenomeno si verifica per via della limitata capacità umana di trasferire le informazioni dalla memoria a breve termine a quella a lungo termine.

Pertanto, davanti a un impegno mnemonico importante, riusciamo a conservare solamente una parte delle informazioni raccolte, quella che per prima abbiamo iniziato a processare e tentato di archiviare.

L’effetto “recency” consiste invece in una predisposizione a ricordare con più facilità la parte finale rispetto al contenuto centrale di un discorso, o di una serie di elementi che ci vengono proposti.

La spiegazione risiede nel fatto che la memoria a breve termine riesce a trattenere solamente le ultime informazioni ricevute.

Pertanto, in qualunque tipo di comunicazione capace di attirare l’attenzione, i primi dati acquisiti verranno incamerati nella memoria a lungo termine mentre gli ultimi verranno trattenuti in quella a breve termine. 3

3. CERCHIAMO LA RISPOSTA EMPATICA DEL NOSTRO PUBBLICO

Un bravo oratore deve far nascere un’emozione nel suo pubblico, manipolandone la risposta empatica.

Generalmente quando si parla di manipolazione si pensa a qualcosa di subdolo e ingannevole, ciò nonostante in un contesto comunicativo la manipolazione empatica può essere utile a ottenere consenso e gradimento, pur restando assolutamente etica.

Tale concetto fu dimostrato da alcuni ricercatori dell’Università del Kansas.

Essi arruolarono parte degli studenti iscritti al corso di psicologia e fecero ascoltare loro la testimonianza di:

1) una donna HIV positiva,

2) un senzatetto;

3) un assassino reo confesso.

Nel primo caso, una ragazza affetta da AIDS raccontava la propria esperienza attraverso una serie di considerazioni comuni negli anni Novanta, l’epoca in cui venne condotto lo studio.

Beh, come potete immaginare, è piuttosto terrificante. Voglio dire, ogni volta che ho la tosse o mi sento acciaccata, mi chiedo, sarà la malattia? È forse questo l’inizio – sai – del precipizio? A volte mi sento discretamente bene, ma in fondo alla mente c’è sempre lo stesso pensiero. In un giorno qualunque tutto potrebbe precipitare. (Pausa). E sono consapevole che… almeno al momento… non c’è via di fuga. So che stanno cercando di trovare una cura, come so che tutti muoiono. Tutto sembra così ingiusto. Così orribile. Come un incubo. (Pausa). Voglio dire, avevo appena iniziato ad assaporare la vita, e ora invece, sto morendo. (Pausa). Può davvero distruggerti.

  • A una parte degli studenti fu detto di pronunciarsi sulla testimonianza che avevano ascoltato assumendo una posizione il più possibile obiettiva (condizione di scarsa empatia).
  • Alla restante fu chiesto di immedesimarsi nel protagonista del dramma e cercare di immaginare il suo stato d’animo (condizione di forte empatia).

Ebbene, la richiesta di calarsi nei panni del narratore si rivelò in grado di aumentare l’intensità di sentimenti quali simpatia, compassione e tenerezza non solo nei confronti del caso specifico, ma anche dell’intera categoria che rappresentava (rispettivamente, le donne affette da HIV, i mendicanti e i criminali).

La manipolazione empatica determinò l’aumento dei punteggi, in alcuni casi anche superiore al 20%, nei questionari mirati a valutare i sentimenti del pubblico (Batson et al., 1997).

Un risultato davvero straordinario.

Cerchiamo allora con i nostri discorsi di generare non solamente un’idea ma anche un’emozione in chi ci ascolta.

In molti casi per ottenere una risposta empatica è sufficiente dire “prova a metterti nei suoi panni”.

4. SFRUTTIAMO IL POTERE DELLO SGUARDO E DEL NOME

Guardiamo sempre negli occhi i nostri interlocutori.

È stato ampiamente dimostrato che il contatto visivo fa apparire più attenti, sicuri, competenti e credibili (Kleinke, 1986).

Il potere dello sguardo è così forte da mantenersi anche quando il contatto avviene attraverso una mera rappresentazione degli occhi.

Ad esempio, in una ricerca scientifica volta a indagare gli elementi in grado di aumentare i contributi a scopo benefico, le persone osservate da un robot offrirono il 29% in più in donazioni rispetto al gruppo di controllo non sottoposto allo sguardo dell’automa (Burnham & Hare, 2007).

Anche quando giriamo tra gli scaffali dei supermercati siamo “osservati” dai personaggi raffigurati su molti prodotti esposti.

Quegli sguardi possono condizionarci, come dimostrato in una ricerca in cui venne manipolata l’immagine presente su una scatola di cereali (usando Photoshop), in modo che il personaggio guardasse nella direzione del potenziale acquirente oppure rivolgesse lo sguardo altrove.

Una sessantina di studenti di una grande università vennero assegnati in modo casuale a una delle due condizioni (contatto visivo con il personaggio disegnato sull’involucro o meno) e venne chiesto loro di valutare il brand di cereali sotto diversi punti di vista.

I risultati dimostrarono come coloro che incrociavano lo sguardo con il personaggio sulla scatola si sentivano più connessi al marchio e avevano un’aumentata probabilità di scegliere quella confezione rispetto alle marche concorrenti (Musicus, Tal, & Wansink, 2015).

Il contatto visivo è inoltre in grado di attivare le stesse aree del cervello che utilizziamo per percepire i desideri, le intenzioni, le convinzioni degli altri.

Così emerge da indagini effettuate grazie a una particolare tecnica di risonanza magnetica, quella funzionale, che è in grado di individuare quali parti del cervello si attivano in risposta a un determinato stimolo, in questo caso il sentirsi osservati (Kampe, Frith, & Frith, 2003).

La cosa potrebbe essere sintetizzata in modo semplice: quando qualcuno ci fissa negli occhi, noi ci sforziamo di ascoltarlo e capire cosa vuole.

Esiste anche un altro potentissimo metodo per richiamare l’attenzione e mettere in azione quei circuiti neuronali che portano a concentrazione e ascolto.

Sicuramente vi sarà capitato di trovarvi in un ambiente particolarmente affollato e chiassoso, in una di quelle circostanze in cui tutti parlano a volume alto e nessuno riesce a capire cosa dicano gli altri.

Anche in tali contesti, esiste un suono che riusciamo a distinguere con chiarezza e che focalizza immediatamente la nostra attenzione: il nostro nome.

Quante volte immersi nel baccano ci siamo girati per cercare con lo sguardo chi ci stava chiamando, o semplicemente stava parlando di noi?

Non si tratta solo di un istinto, perché anche in questi casi si attivano i circuiti cerebrali che utilizziamo quando vogliamo interpretare il pensiero degli altri (Kampe et al., 2003; Carmody & Lewis, 2006).

5. CURIAMO ANCHE LE CONVERSAZIONI DI SCARSA IMPORTANZA

Proprio durante le conversazioni di scarsa importanza, nel tentativo di colorire un aneddoto o esternare un’emozione, possono scappare delle parolacce, oppure può capitare di utilizzare frasi troppo complesse, un linguaggio aulico e sostenuto, o ancora espressioni abusate e prive di valore: “non ti dico come…”, “guarda… da non credere”, “non esiste che…” e così via.

Come veniamo giudicati in questi casi?

Sì, mettiamoci pure il cuore in pace: veniamo giudicati anche (e soprattutto) nelle nostre chiacchiere da bar.

Beh, allora d’istinto verrebbe da rispondere che chi utilizza il turpiloquio appare volgare, chi parla in modo forbito appare colto e magari interessante, mentre chi utilizza intercalari appare giovanile e alla moda.

Innanzitutto la convinzione che gli sboccati possiedano un vocabolario povero, siano persone con un basso livello culturale, pigre e incapaci di autocontrollo, è sbagliata.

Chi ha vissuto in un collegio o ha soggiornato nei suoi locali anche solo per brevi periodi sa bene che gli studenti, anche delle migliori scuole e università, sono estremamente avvezzi al turpiloquio nonostante il loro grado di istruzione sia alto e il vocabolario ricco.

Se non vogliamo rinunciare alle parole tabù, teniamo a mente che il loro potere penetrante è inversamente proporzionale alla loro frequenza d’uso.

Proviamo a paragonare le parolacce al clacson della nostra auto.

Ora immaginiamoci sulla nostra macchina in un paesino caratterizzato da una profonda quiete.

Vogliamo passare per i cafoni che strombettano ogni volta che spostano l’auto?

O preferiamo dimenticare di avere il clacson per utilizzarlo in caso di effettivo bisogno, come ad esempio per richiamare l’attenzione?

Cerchiamo poi di mantenere un linguaggio semplice e, soprattutto, comprensibile a chi ci ascolta.

Le cose più semplici da capire sono anche più facili da elaborare per la nostra mente. Di conseguenza, un messaggio facilmente comprensibile raccoglierà sempre un più ampio consenso.

Numerose ricerche hanno dimostrato come un linguaggio chiaro e semplice venga istintivamente giudicato come veritiero (Reber & Schwarz, 1999), piacevole (Reber, Winkielman, & Schwarz, 1998) e proveniente da una fonte intelligente (Oppenheimer, 2006).

Chi ci ascolta desidera ricevere un messaggio non solo comprensibile, ma anche facile da elaborare, perché le nostre conversazioni spesso costruiscono idee, pensieri e immagini nella mente di chi ascolta.

Più questo processo risulta difficile, maggiore sarà la probabilità che le nostre parole generino insofferenza.

6. GENERIAMO DISCUSSIONI CHE INCLUDONO

Cosa succede quando una comunicazione, anziché unire e includere, porta all’emarginazione di un individuo?

Purtroppo le conseguenze possono essere gravi, perché l’ostracismo impedisce di soddisfare alcuni bisogni fondamentali.

Il primo è il senso di appartenenza (belongingness), definito come il desiderio di stabili e frequenti interazioni positive con altre persone.

Quando si isola una persona, escludendola costantemente dalle conversazioni, la si priva della necessità di sentirsi affiliata a un gruppo e questo genera ansia, stress e depressione.

Anche l’autostima (self-esteem) risulta minata, quando ci si sente ignorati.

Infatti l’individuo messo in disparte in molti casi giunge a ritenere di non essere degno di considerazione, poco interessante o addirittura incapace.

Inoltre l’essere ripetutamente esclusi dalle comunicazioni degli altri viene percepito come una mancanza di riconoscimento e attenzioni, che può portare un individuo a dubitare della significatività (meaningful) stessa della propria esistenza.

L’ostracismo impoverisce, infine, l’innato bisogno di controllo sulle interazioni con altri individui (control).

Il desiderio di scegliere le persone con cui stare, parlare o semplicemente confrontarsi è insito in ogni essere umano.

Quando si viene rifiutati, si viene anche privati della possibilità di controllare i nostri rapporti con gli altri.

E la necessità di tornare padroni delle proprie scelte è tanto forte da spingere coloro che si sentono rifiutati anche verso risposte aggressive, a volte antisociali, nel tentativo di riconquistare il pieno controllo della loro vita (Williams & Sommer, 1997; Gerber & Wheeler, 2009).

Nel mondo della ricerca, per ricreare la sensazione di inclusione o esclusione viene frequentemente utilizzato un videogioco chiamato Cyberball.

Il gioco consiste nell’interagire con altri giocatori virtuali passando e ricevendo una palla, che rispettivamente appare e scompare sullo schermo del proprio computer.

Pur essendo estremamente noioso, il videogioco è in grado di evocare la sensazione di esclusione tutte le volte che un partecipante viene ignorato nei passaggi.

Sfruttando tale principio, un gruppo di ricercatori guidato dalla dottoressa Eisenberger del Dipartimento di Psicologia Franz Hall, dell’Università della California Los Angeles, fece credere ai partecipanti del proprio studio che avrebbero giocato al Cyberball con altre due persone e contemporaneamente sarebbero stati sottoposti a una risonanza magnetica funzionale (l’esame in grado di evidenziare quali aree cerebrali si attivano durante l’esecuzione di un determinato compito).

In realtà non vi era alcun giocatore e il partecipante, a sua insaputa, interagiva con un programma che dopo alcuni passaggi iniziali lo escludeva da quelli successivi.

Ciò che venne registrato tramite la risonanza magnetica funzionale fu l’attivazione della medesima area cerebrale che viene messa in funzione dagli stimoli dolorosi (la parte dorsale della corteccia cingolata anteriore) (Eisenberger, Lieberman, & Williams, 2003).

Creiamo dunque discussioni capaci di includere tutti i partecipanti.

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Bibliografia

Gian Luca Rosso
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